Luca Guadagnino, quattro anni dopo Chiamami col tuo nome, torna a parlare di amori e di adolescenti.
Bones and All, presentato alla Mostra del cinema di Venezia ’79, è uscito nelle sale italiane lo scorso 23 novembre e ha fatto molto parlare di se.
È difficile definire il genere di questo film, sulla carta è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Camille DeAngelis, che si muove in chiave horror, essendo una storia sui cannibali. Il cannibalismo è sicuramente un elemento che in Bones and All rimane impresso, non solo perchè le scene (forti) si vedono ma perchè vengono narrate in modo anticonvenzionale rispetto all’horror classico. Non c’è violenza spettacolarizzata ma viene casualmente spruzzata nel corso del racconto e inquadrata con grande realismo.
Definirlo come un semplice horror è limitativo perchè il lungometraggio di Guadagnino è un cruogiolo di generi; è una storia di un primo amore, è un road movie che racconta il Midwest degli anni ’80, l’America di Reagan, ma è anche un’estrema, grande metafora sull’emarginazione dei diversi.
Trama Bones and All
Verso la metà degli anni ’80, Maren (Taylor Russell) vive con il padre (Andre Holland) in Virginia ed è all’apparenza un’adolescente come tante. Presto però la sua natura di cannibale viene alla luce, costringendo il genitore ad abbandonarla al suo destino.
La ragazza, appena diciottenne, parte alla ricerca della madre (Chloe Sevigny) di cui non sa nulla e lungo la strada conosce persone come lei, della sua stessa natura; isolati, vagabondi della società americana, tra cui l’inquietante Sully (Mark Rylance) e l’affascinante e sbandato Lee (Timothee Chalamet), di qualche anno più grande, con cui decide di proseguire il viaggio. Stato dopo stato, dal Maryland al Nebraska, incontro dopo incontro, Maren e Lee cercano di trovare il proprio posto nel mondo e la loro strada, incerti e spaventati dall’irrompere incontrollato del desiderio che li guida.
I luoghi simbolo dei sentimenti
Bones and All cerca di ritrarre il Midwest e le Grandi Pianure americane con una bellezza e una vitalità autentica che spesso passano inosservate. Fa anche spazio a tutto il dolore e il trauma che vibra all’interno dei confini invisibili di queste aree.
I paesaggi sono vasti e sbalorditivi, ma tutta quella libertà può rivelarsi tanto isolante quanto seducente. Questi sono luoghi rovinati da anni di politica conservatrice radicata, crisi degli oppioidi, omofobia e razzismo.
Parte del forte senso di terrore del film deriva dall’ambientazione, dove il dolore della rovina economica degli anni ’80 ricopre ogni fotogramma con una tensione impercettibile. Bones and All è il primo lungometraggio di Guadagnino ambientato interamente negli Stati Uniti e, come tutti i suoi racconti, è una storia che riguarda in egual misura il luogo e i personaggi.
“Voglio sempre trovare l’equilibrio e la tensione tra il personaggio e il luogo”, dice il cineasta italiano.
Il regista e il direttore della fotografia Arseni Khachaturan catturano efficacemente il Midwest, con scatti di colazioni nelle tavole calde e dolci cameriere che versano il caffè in città fatiscenti dove tutti si conoscono.
Nonostante la cupa oscurità che aleggia sul Midwest, tanto piatta quanto le pianure stesse, c’è un tipo speciale di perseveranza radicata nella sua gente.
Per quanto il Midwest sia un personaggio nella pellicola, in realtà è semplicemente un membro di supporto del cast. La regione esiste per amplificare gli amanti cannibali, in prima linea nel film, con l’enormità del suo paesaggio.
Nelle pianure, Lee e Maren si ritrovano a correre attraverso parti dimenticate del mondo, quelle rese magiche dalla loro negligenza. A sua volta, il loro amore si sente altrettanto incantato, finché non aprono di più gli occhi, per assistere al deterioramento che li circonda.
La fragilità dei personaggi
I protagonisti si spostano tra gli stati, legandosi sempre più. Per molti versi, Bones and All è una tipica storia d’amore, in particolare quella che coinvolge due emarginati che trovano la salvezza l’uno nell’altro. Lee fatica a soppesare il suo bisogno di indipendenza (è il risultato di una relazione violenta con il padre) con la sua vacillante idea di bontà. L’ingresso di Maren nella sua vita gli ha portato amore, ricordandogli anche che le sue azioni non sono irreprensibili. I due camminano insieme in punta di piedi ai margini della società, testimoniando sia le anime nere che uccidono senza rimorso, sia l’innocenza delle loro ignare vittime.
Chalamet e Russell hanno una chimica palpabile, ma ciò che distingue le loro interpretazioni è la sfumatura nel modo in cui interpretano le vulnerabilità dei loro personaggi, che si manifesta in modi diversi. La Maren di Russell è più ingenua, non è abituata ad essere completamente sola mentre il Lee di Chalamet tiene i traumi e le delusioni del passato appena sotto la superficie.
Guadagnino suscita performance tenere e sofisticate nei suoi giovani protagonisti;
La violenza non è mai usata per spettacolarizzare e anche le sequenze più estreme, che di fatto sono rivoltanti, hanno una strana poesia. C’è una ragione per ogni scena cruenta, non è gratuita, anche se nausebonda.
L’altro protagonista del film: il cannibalismo
Il regista non si sottrae dal mostrare lo shock viscerale degli indicibili impulsi dei personaggi: sia Maren sia Lee trascorrono gran parte del tempo imbrattati del sangue rappreso delle loro vittime. l’atto di nutrirsi – strappare con i denti, tuffarsi con la faccia in profondità nella carne di un altro essere umano – è selvaggio, animalesco e pieno di vergogna. C’è anche una minaccia palpabile nei compagni “mangiatori” che incontrano: l’interpretazione grottesca e straordinaria di Mark Rylance nei panni del raccapricciante solitario Sully è particolarmente degna di nota, come lo è anche quella di Michael Stuhlbarg che interpreta un viandante inquietante.
I protagonisti devono sostenere un vero peso emotivo; la prima volta che Maren mette in mostra la sua vera natura è durante un pigiama party con amiche appena conosciute, escludendo così dalla sua vita ogni barlume di normalità.
L’importanza dei dettagli
Luca Guadagnino è un grande esteta. Il suo cinema è fatto di piccoli elementi, all’apparenza di contorno, che sommati diventano fondamentali e danno il senso intero del film. Ed essendo molto attento a comunicare i sentimenti attraverso i dettagli questo fa si che il suo cinema sia un qualcosa di estremamente forte e ammaliante. Ogni volta che si è di fronte ad un suo lavoro si fa un’esperienza sensoriale unica.
E anche per il suo ultimo lungometraggio è così; che sia un piatto di pancakes, un giradischi che trasmette una canzone dei Duran Duran (gli anni ’80 si respirano molto grazie anche alla bellissima colonna sonora) o il sangue sui capelli, ad ogni minuzia è riservata una cura straordinaria.
Discorso che diventa ancora più pregnante se si pensa ai libri; se in Chiamami col tuo nome Elio legge l’Armance di Stendhal non casualmente, lo stesso vale per Dubliners di Joyce letto da Maren in Bones and All, per affermare con incivisività l’impotenza della condizione dei ragazzi di fronte alla loro condizione.
Conclusioni finali
Il film è una proposta diversa rispetto all’ambiente italiano sognante e malinconico di Chiamami col tuo nome, ma ha parte dello stesso DNA di un corteggiamento inebriante e complicato, come se fosse l’altra faccia della stessa medaglia. Come se la pellicola sui cannibali fosse un modo diverso e provocatorio di considerare un amore totalizzante e divorante.
In un certo senso, Bones and All è un distillato di temi del precedente lavoro di Guadagnino. L’intreccio di cibo e appetiti erotici si ricollega a Io Sono L’amore ; i desideri dolorosamente romantici del primo amore (e in Chalamet e Stuhlbarg) sono condivisi con Chiamami col tuo nome ; i luridi impulsi di genere mostrano le impronte insanguinate di Suspiria.
Ma nell’elegante equilibrio di questi elementi apparentemente incongrui, il regista è riuscito a fare un ottimo lavoro.