USA, 2020
REGIA: GEORGE C. WOLFE
DURATA: 94 min.
GENERE: Film sul Razzismo
CAST: VIOLA DAVIS, CHADWICK BOSEMAN, GLYNN TURMAN, COLMAN DOMINGO, MICHAEL POTTS.
IL BLUES NARRATO DAL POETA DELLA “BLACK AMERICA”
Il titolo del film “Ma Rainey’s Black Bottom”, disponibile su Netflix, proviene dall’omonima canzone della “Madre del Blues” Gertrude ‘Ma’ Rainey, una delle prime artiste afroamericane a esibirsi e incidere dischi del genere musicale precipuo della comunità nera statunitense, che avrebbe ispirato e influenzato miriadi di cantanti soul e R&B nei decenni successivi.
Lo scenario è quello del 1927 a Chicago, dove in un pomeriggio afoso un gruppo di musicisti si riunisce nella sala di registrazione di uno studio discografico per incidere il primo album di Ma Rainey, imponente ed esigente cantante interpretata da una magnifica Viola Davis.
Tra i membri della band troviamo Levee Green, arrogante e ambizioso trombettista che sogna di fare il grande salto nel panorama musicale con un gruppo tutto suo. A vestirne i panni, nell’ultima interpretazione prima della sua prematura morte avvenuta lo scorso agosto, un incredibile Chadwick Boseman, che i più ricorderanno per essere stato Black Panther nella saga della Marvel.
La manciata di ore che vedono i musicisti impegnati tra prove e registrazioni serve da pretesto per dipingere l’affresco di una comunità: tra scambi di battute, rivelazioni scomode e duri confronti lo spettatore viene messo di fronte a tematiche quali le ingiustizie sociali, la religione e il rapporto con Dio, lo sfruttamento commerciale dei neri e il razzismo di inizio Novecento, che riescono a essere attuali ancora oggi.
Caratterizzato da una singola location e dialoghi serrati, notiamo subito che il film è tratto da un’opera teatrale, precisamente dalla pièce omonima scritta nel 1982 da August Wilson, il cosiddetto “poeta dell’America Nera”, che come pochi altri ha raccontato le storie degli ultimi, dei dimenticati di una popolazione ai margini della società.
Autore prolifico, questa è la seconda pellicola tratta da uno dei suoi lavori: nel 2016 infatti Denzel Washington (qui in veste di produttore) aveva adattato per il grande schermo “Fences – Barriere”, grande successo di critica che aveva portato Viola Davis a vincere un Oscar.
UN CAST IN STATO DI GRAZIA
Non stupisce quindi che la scelta per interpretare Ma Rainey, personaggio simbolo della musica e della comunità afroamericana di quegli anni, sia ricaduta sulla Davis, che regala un’altra performance impeccabile, sfaccettata e intensa.
A partire dalla sua fisicità ingombrante (la vera Ma Rainey era evidentemente sovrappeso), dal suo trucco sbavato e dalla sua voce graffiante, la Madre del Blues è una donna indipendente e aggressiva, che deve destreggiarsi in un mondo dominato dai bianchi, una pioniera della musica a cui la vita non ha regalato niente e costantemente sfruttata ai fini commerciali da manager e produttori. Fortunatamente la prova della Davis non la rende né una macchietta né un totem di pietismo, bensì un’artista profonda con le sue luci e ombre, disperata e ironica al tempo stesso.
A rubare la scena, tuttavia, è Chadwick Boseman nei panni del presuntuoso trombettista Levee che non sopporta le direttive, denigra il lavoro degli altri musicisti fin dall’inizio e sogna di poter avere una band tutta sua. La chiave dell’opera è tutta nel suo personaggio: un uomo che ha vissuto gli orrori del razzismo sulla propria pelle ma non per questo si è piegato a una società che lo vorrebbe controllare e vessare. I traumi subiti e l’ossessiva ambizione lo porteranno però ad agire in modi spaventosi.
Levee è esattamente il prodotto del razzismo made in USA, vale a dire un individuo ferito (letteralmente) nel corpo e nell’orgoglio che, trovandosi di fronte a un muro invalicabile costruito da una società crudele e classista, non trova altro modo di reagire che trasformandosi in ciò che quella stessa società affogata nel pregiudizio teme e cerca di arginare.
Con la sua ultima interpretazione Boseman ci ha donato una prova recitativa immensa, dolorosa e potente. Senza fare sconti e sfiorando l’istrionismo, dovuto anche all’impostazione teatrale della sceneggiatura, siamo di fronte a una delle performance maschili migliori dell’anno che sicuramente non passerà inosservata ai giurati dell’Academy.
VALE LA PENA VEDERLO?
“Ma Rainey’s Black Bottom” è un’opera importante per comprendere una comunità, quella afroamericana, ancora oggi bersaglio di violenze e stereotipi. Sicuramente la provenienza dal contesto teatrale si fa sentire e ciò non lo rende un prodotto di facile fruizione per tutti.
Il regista George C. Wolfe, proveniente anch’egli dal palcoscenico, e lo sceneggiatore Ruben Santiago-Hudson che ha adattato l’opera sono rimasti fedeli allo spirito dell’autore August Wilson, il cui contributo narrativo e sociologico è potente e non necessita di ulteriori sovrastrutture o arricchimenti inutili.
Ciononostante, una maggiore incisività nelle scelte di regia, che in definitiva osa poco, avrebbe giovato in quanto il risultato finale appare più come una riuscita trasposizione dal teatro al grande schermo che un’opera cinematografica in grado di reggersi sulle proprie gambe realmente indimenticabile, che a tratti fatica a rimanere impressa nel cuore degli spettatori a eccezione dei suoi straordinari attori.