USA, 2021
REGIA: SAM LEVINSON
DURATA: 106 min.
CAST: ZENDAYA, JOHN DAVID WASHINGTON.
LA TRAMA
Malcolm e Marie sono una giovane coppia che torna a casa dopo una serata di successo: lui è un promettente regista, l’anteprima del suo film di debutto è stata un trionfo e ha solo voglia di festeggiare con la sua attraente fidanzata. Marie non ha però nessuna intenzione di unirsi al buonumore del compagno, sembra contrariata per qualcosa e il suo malcelato risentimento pian piano affiora capovolgendo l’atmosfera allegra.
Inizia così la storia di “Malcolm & Marie”, nuovo film di Sam Levinson e il primo girato durante la pandemia di Covid-19 negli Stati Uniti (precisamente tra giugno e luglio 2020).
Disponibile su Netflix dal 5 febbraio, si avvale di un unico set, la lussuosa dimora dei protagonisti, e di due soli attori: John David Washington e Zendaya, Malcolm e Marie appunto.
RITRATTO DI COPPIA IN UN INTERNO
Realizzata in tempi record data l’emergenza sanitaria, la pellicola scritta e diretta da Sam Levinson (figlio d’arte, il padre Barry è il celebre regista premio Oscar per “Rain Man”, tra gli altri) si focalizza su una singola nottata nella vita dell’apparentemente felice coppia del titolo, andando a scandagliare le dinamiche della loro relazione attraverso un copione ricco di dialoghi serrati e movimenti circoscritti all’interno delle varie stanze della casa.
Un po’ come durante una coreografia minuziosa, i due attori si incontrano e scontrano, si allontanano e riavvicinano, si abbracciano e si respingono utilizzando lo spazio come il set di un’opera teatrale: c’è difatti molto del sapore di un palcoscenico in questo film, che attinge dalla tradizione di altri titoli famosi e simili nell’impianto, a partire da “Chi ha paura di Virginia Woolf?” fino a “Carnage” e “Storia di un matrimonio”, per mettere al microscopio, in un breve lasso di tempo, ciò che fa di una coppia la sua sostanza nel bene e nel male.
Ben presto Marie rivelerà quale sia il motivo del suo disappunto e ciò darà il via a una escalation di violenza verbale e psicologica, un gioco al massacro sempre più pericoloso in cui verranno sciorinati in maniera non del tutto ortodossa i rispettivi rancori, le frustrazioni, le paure e i sentimenti più intimi che i due provano l’uno per l’altra.
Il passato di tossicodipendenza di Marie sarà preponderante nella discussione, soprattutto perché il film che Malcolm ha realizzato si concentra proprio su una giovane donna persa nel tunnel della droga. Da qui, oltre al loro rapporto personale, le tematiche della pellicola si concentrano via via sulla figura della musa, dell’ispirazione artistica, sull’eterna diatriba tra autenticità ed estetica fino alla funzione pedagogica e finanche politica della settima arte.
UNO SCRIPT AL SERVIZIO DI DUE INTERPRETI MAGISTRALI
Girato in un affascinante bianco e nero, “Malcolm & Marie” è un dramma da camera fortemente incentrato sui dialoghi e sull’interpretazione eccezionale dei due attori, i quali beneficiano di una sceneggiatura che li permette di dimostrare tutto il loro talento anche solamente con i silenzi o con uno sguardo. Tra i due quella che risalta maggiormente è senza dubbio Zendaya, attrice e cantante classe 1996, vista in “The Greatest Showman” e nei nuovi capitoli di “Spiderman”, lanciatissima negli ultimi anni grazie al ruolo di Rue nella serie tv della HBO “Euphoria” (creata sempre da Levinson col quale continua il fortunato sodalizio) e prossimamente a fianco di Timothée Chalamet nell’atteso “Dune” di Denis Villeneuve.
Nei panni di Malcolm, John David Washington è altrettanto magnetico e sensazionale, confermando la sua versatilità dopo il recente ruolo action in “TENET” di Christopher Nolan.
Nonostante l’ambientazione singola, non si ha mai l’impressione di monotonia soffocante grazie a una regia incalzante che, tramite le pareti e gli angoli della casa, crea geometrie a uso e consumo dei suoi personaggi impegnati in un duetto al vetriolo accattivante che, va detto, talvolta risulta più artificioso e pretestuoso di quello che si vorrebbe.
VALE LA PENA VEDERLO?
Mettendo sul fuoco svariate tematiche – oltre a quelle sopracitate non ultima anche quella della questione razziale e il tranello della politicizzazione delle opere create da artisti afroamericani – e tramutandosi in breve tempo in discussione squisitamente metacinematografica (quando ad esempio Malcolm commenta la prima recensione fatta da una giornalista al suo film), Levinson conferisce all’opera uno spirito fin troppo presuntuoso e autoreferenziale in alcuni punti, che le impediscono di mantenere lo stesso livello di impatto per l’intera durata.
La bravura degli attori eleva sicuramente tutta la situazione ed è un piacere scommettere su dove andrà a parare il loro confronto, nonostante un finale incerto e frettoloso.
Il film è senza dubbio godibile, ma a tratti il pubblico potrebbe interrogarsi sulla reale urgenza e necessità di tale ferocia ed esasperazione, sulle vere motivazioni che portano i protagonisti ad agire in un determinato modo, a meno che gli spettatori non siano degli addetti ai lavori o grandi appassionati del mezzo cinematografico e di tutto l’universo che gli gravita intorno.
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